Vecchi schemi e nuovi modelli di informazione
Oggi non vi parlo di intelligenza artificiale, ma di un progetto nuovo, Revolution, in cui lo spazio per discutere di nuove tecnologie non mancherà.
Ciò di cui vi parlo oggi non riguarda l’intelligenza artificiale. O forse si, lo scopriremo.
Certamente sarà qualcosa di nuovo e se rispecchierà lo spirito di Appunti, come annunciato dal suo fondatore Stefano Feltri, lo spazio per discutere di nuove tecnologie non mancherà.
Si chiama Revolution e sarà un “podcast-trasmissione” di quindici minuti, che andrà in onda ogni giorno, in diretta su Radio 3, dal 30 settembre alle 19.45, e che sarà poi diffuso sulle diverse piattaforme, tra cui Spotify.
Come scrive lo stesso Stefano Feltri: «Revolution è pensata per informare quella che su Appunti ho definito la generazione post-edicole, quella di chi non ha mai comprato un giornale di carta e non si sogna di abbonarsi a media che percepisce come distanti e non sempre così autorevoli come pretendono di essere».
Questa novità mi offre lo spunto per riallacciarmi a tre articoli pubblicati sempre su Appunti sulla crisi dell’editoria, da cui emergono temi importanti, tra cui la necessità di garantire la libertà espressiva dell’autore e la crescente richiesta di un’informazione gratuita che alimenta e accresce il cortocircuito tra l’alta qualità dell’informazione e un adeguato numero di lettori.
Facciamo un passo indietro
Le riflessioni emerse sono molto interessati, ma credo sia necessario fare un passo avanti e ampliare l’angolo visuale, iniziando facendo un passo indietro.
All’inizio degli anni Duemila, Napster e altre piattaforme, sconvolsero l’industria musicale. Di colpo era possibile trovare su Internet tutte le canzoni che si desiderava ascoltare, senza dovere pagare niente e potendole ascoltare subito, senza attendere di possedere un CD o fare la fatica di uscire di casa.
Oggi questo tipo di fruizione è del tutto normale, ma all’epoca fu un vero shock per il mercato. Come sempre accade quando una nuova tecnologia si impone, iniziarono le azioni legali, sia civili che penali, con piattaforme che, come The Pirate Bay, finirono seriamente nei guai. L’obiettivo dell’industria discografica tradizionale era distruggere sul nascere il nuovo modello di distribuzione, che violava le leggi sul diritto d’autore e ricacciare negli inferi quella novità destabilizzante, che rendeva inutili le case discografiche accusate, dal lato opposto e come era vero, di trattenere la maggiore parte dei proventi, a scapito degli acquirenti ma anche degli stessi autori che avrebbero guadagnato molto di più se avessero potuto vendere i loro pezzi direttamente senza alcuna intermediazione.
Quello che le imprese discografiche non capirono subito fu che il dado era stato tratto e nessuno sarebbe più stato disposto a tornare a comprare CD. Qualche mente illuminata propose di cavalcare quell’onda in modo diverso, ma ci sono voluti anni perché quella profezia si avverasse.
Oggi il mercato musicale esiste ancora, ma è completamente cambiato. I cantanti sono sempre di più dei personaggi ed il pubblico, più delle loro canzoni, compra la loro storia e la loro personalità. Non si acquistano CD, ma vengono spese cifre anche molto alte per i concerti o per acquistare i vestiti costosissimi delle marche indossate dai vari paladini e i prodotti che reclamizzano, mentre la sua musica si ascolta gratis su Spotify.
Se il pubblico è ancora assetato di cultura, cosa che davvero ci auguriamo, non sono sicura che la soluzione possa essere la gratuità dell’intermediazione delle case editrici che, comunque, qualcuno dovrebbe pagare per fare il loro lavoro e non penso possa farlo lo Stato. Si aprirebbe un serio capitolo di spesa ma anche di controllo sui contenuti che, vista l’esperienza che stiamo recentemente vivendo, non è da auspicare.
Nuovi modelli di business
Si dovrebbero, piuttosto, inventare nell’editoria, come fu per la musica, nuovi modelli di business, uscendo da schemi consolidati che a quanto pare non funzionano più. I lettori, nel bene o nel male, hanno probabilmente bisogno dell’autore, prima del suo libro. Vogliono l’uomo, la persona, la storia, la verità. Chi compra un prodotto, o segue un personaggio, non si nutre solo dell’oggetto o del pensiero, ma della vita di chi lo ha creato, della sua esperienza, perché simile alla propria o per riconoscergli un tributo o, magari, per l’aspirazione a diventare come lui.
All’ultimo Salone del Libro di Torino sono rimasta colpita da lunghe file di lettori per il firmacopie di libri di autori a me sconosciuti, che ho scoperto essere tra i più venduti. Mi sono fermata a parlare con molti di questi ragazzi in fila per capire chi fossero gli autori, di cosa parlassero, se avessero letto il libro e se gli fosse piaciuto. Erano entusiasti e prima di tutto mi raccontavano dell’autore, di quello che faceva, di cosa raccontava. Erano tutti tik toker che avevano usato i canali social per scopi diversi, che andavano dai consigli sul trucco alla cucina, alla passione per le piante, seguitissimi a quanto ho capito, e che avevano scritto un libro sugli stessi temi.
Non nego di avere provato un certo sgomento, ma tutto si può dire di loro, anche il peggio se vogliamo, tranne che non sono in grado di attrarre il pubblico. E non sono gli unici. Se si pensa ad Alessandro Barbero il contenuto è diverso, ma il risultato è lo stesso.
Forse dovremmo imparare un po' di più a sporcarci le mani senza rinunciare ai nostri valori e ai nostri punti di vista. Non voglio dire che dovremmo tutti usare Tik Tok o i social network, su cui avrei molto di negativo da dire, ma che dobbiamo smettere di fossilizzarci su modelli desueti, questo si. È faticoso, soprattutto per chi vorrebbe parlare solo attraverso i propri scritti, ma è necessario, tanto più per chi ha idee e contenuti da trasmettere, per non lasciare senza presidio gli spazi e quegli strumenti preferiti dai giovani.
In questo contesto, la nuova avventura di Revolution mi sembra davvero interessante, perché utilizzata mezzi e modalità di comunicazione nuove per veicolare concetti alti, proprio come deve essere fatto, senza assolutamente svilirsi all’uso di basso livello che molti ne fanno.
Piuttosto che lamentarci che nessuno compra più libri o legge giornali, dovremmo capire che cosa il pubblico chiede e imparare a parlare un nuovo linguaggio per diffondere pensieri di alto livello, anziché mediocri banalità. Se ci riteniamo tanto intelligenti e capaci, dovremmo cominciare a camminare sul sentiero su cui si muovono i lettori, senza trasformarci in una macchietta, ma portando noi stessi.
Se iniziamo a parlare la loro lingua potremmo scoprire con sorpresa che restano ad ascoltarci e magari sono anche disposti a spendere per i nostri contenuti. Se, invece, continuiamo a pretendere di imporre modelli stantii, chiusi in una torre eburnea, è probabile che ci moriremo di fame.
Condivido l'analisi ma segnalo che sono anni che si fanno esperimenti di piattaforme social di lettori e scrittori e finora nessuno è riuscito a diventare "di massa" come Napster.
Conosco persone che scrivono su Facebook o su altre piattaforme più piccole ma non sono mai diventati mainstream. Anche se hanno il loro pubblico che li adora quando scrivono, devono adottare un certo stile: e questo non è un pregio.
Avete mai visto i video di Ungaretti che legge le sue poesie? Non era sicuramente un personaggio ed è difficile immaginare che potesse piacere a tanti, eppure le sue opere sono tra le più citate. Mi fa quindi un pò paura che uno debba essere "personaggio" per diventare famoso: se penso alle opere di Jack Kerouac mi vengono i brividi a pensare che una persona così possa diventare un personaggio pubblico, eppure non avrei mai scoperto l'america profonda senza di lui.
L'argomento è complesso ed è un peccato che non ci sia modo di articolare meglio il discorso.
Un ottimo articolo. Esattamente come pensavo. Non a caso molti lettori sono quasi costretti, o forse invitati, a piratare ebook. Ma con la musica è finita bene e allora perché non dovrebbe andare anche con la letteratura ....